Emergenza Covid-19 e Responsabilità Sociale d’Impresa

Le imprese riscoprono il loro ruolo sociale nella lotta all’epidemia: donazioni, trasformazioni del business e maggiore attenzione alla salute delle persone

L’emergenza Covid-19 coinvolge tutti e ognuno è chiamato ad assumere comportamenti responsabili, in primis rispettare l’#iorestoacasa chiesto ripetutamente dal Governo. Come può un’impresa italiana essere socialmente responsabile in questa crisi?

Si parla di Responsabilità Sociale d’Impresa (RSI), conosciuta anche con il termine inglese Corporate Social Responsability (CSR), ovvero della volontà delle grandi, piccole e medie imprese di gestire efficacemente problematiche d’impatto sociale. La Commissione Europea, in una comunicazione del 25 ottobre 2011 (n. 681), la definì “The responsibility of enterprises for their impacts on society» («La responsabilità delle imprese per il loro impatto sulla società»).

I dati non sono confortanti: dalle indagini emerge che solo il 20% degli italiani sa cosa significa Corporate Social Responsibility. E chi conosce il termine nutre spesso un certo grado di scetticismo: il 47% crede che le attività di CSR siano “operazioni di facciata e non concrete”.


Soltanto il 33% degli italiani ritiene “molto importante” essere messo al corrente della condotta di responsabilità sociale dei brand di cui è cliente
e l’84% lo ritiene “abbastanza importante”.

I risultati emersi non sono da interpretare come un segnale di disinteresse ma piuttosto come una scarsa conoscenza della materia e dell’impatto che la responsabilità sociale delle imprese può avere sulla società. La CSR sta diventando una scelta inevitabile, un elemento reputazionale essenziale per il successo del brand e la possibilità per molte aziende di giocare un ruolo attivo nel miglioramento dell’intera società. Ovviamente, nel perseguire tali obiettivi servono azioni concrete e coerenti e la comunicazione gioca un ruolo fondamentale.


A causa dell’attuale situazione di crisi, le imprese riscoprono il loro ruolo sociale nella lotta all’epidemia.
Infatti, da quando è scoppiata la bufera Coronavirus, le imprese italiane hanno attuato o implementato la loro strategia di Responsabilità Sociale. Molti obiettivi economici sono stati accantonati per portare avanti l’unico interesse attuale: salvaguardare la salute di tutti.
Una sola grande volontà che ha ottenuto risposte molteplici e complesse dalle imprese italiane, ognuna secondo le proprie specificità e dimensioni. La CSR di un’impresa si sta declinando in donazioni significative, in trasformazioni del business e in gesti responsabili a favore della salute dei dipendenti e delle loro famiglie, azioni che mettono al centro le persone.

Donazioni

È iniziata una grande gara di solidarietà che ha coinvolto sia piccole che grandi realtà, colossi del credito come Intesa Sanpaolo e Unicredit, gruppi stranieri come Xiaomi, catene di supermercati…

Per molte imprese, la formula più immediata per salvaguardare la salute pubblica è stata quella di effettuare una donazione. Sono settimane che aziende e imprenditori, incentivati dal Governo, donano cospicue cifre per far fronte alla crisi. Infatti, nell’art. 66 del decreto “Cura Italia” si afferma che “per le erogazioni liberali in denaro e in natura, effettuate nell’anno 2020 dalle persone fisiche e dagli enti non commerciali, in favore dello Stato, delle regioni, degli enti locali territoriali, di enti o istituzioni pubbliche, di fondazioni e associazioni legalmente riconosciute senza scopo di lucro, finalizzate a finanziare gli interventi in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 spetta una detrazione dall’imposta lorda ai fini dell’imposta sul reddito pari al 30%, per un importo non superiore a 30.000 euro”.

Sono tante le grandi imprese italiane che hanno donato a favore degli ospedali, della Protezione Civile o della Croce Rossa, raggiungendo una cifra complessiva di centinaia di milioni di euro: Bayer, Recordati, Tim, Inter, Gruppo Falck, SNAM, Armani, Dolce & Gabbana, Moncler, Prada, Campari, UBI Banca, Coca Cola, Unipol SAI…
E poi ci sono le donazioni e gli interventi di tantissimi imprenditori di tutto il Paese, i quali offrono quanto possono a favore del proprio territorio,  per far fronte alle necessità sociali di sostegno ai malati, agli operatori sanitari e alla protezione civile.

Trasformazioni del business

Ci sono ad imprenditori che hanno cambiato o accelerato la loro produzione di articoli necessari nella lotta contro il virus, come dispositivi per la protezione individuale e per prevenire il contagio.

Siare Engineering, azienda produttrice di ventilatori polmonari per la terapia intensiva, ha eliminato tutte le commesse estere, le quali ammontavano al 90% del loro fatturato, in modo tale da produrre macchinari solo per l’emergenza italiana. Dai 125 apparecchi al mese, l’azienda è passata alla produzione di 500 macchinari, per un totale di 2000 unità entro luglio, allungando i turni del proprio personale e reclutando 25 tecnici dell’esercito.

Ci sono poi quelle fabbriche che hanno cambiato la loro produzione per venire incontro alla grande richiesta di mascherine, come ad esempio la Di-bi, azienda nel campo dell’abbigliamento sportivo che ha eliminato tutti gli ordini ed ha convertito interamente la sua produzione studiando una protezione in grado di bloccare le particelle di saliva partendo dai materiali degli indumenti finora prodotti.

Gli esempi sono molti, aumentano quotidianamente su tutto il territorio nazionale, e testimoniano come l’emergenza Covid-19 abbia chiamato l’intero tessuto produttivo italiano ad impegnarsi su un unico obiettivo, aderendo sempre di più ai principi della Corporate Social Responsibility.

Le persone al centro

Ovviamente, in un momento di crisi, non tutti possono permettersi di effettuare donazioni economiche o trasformare il proprio business. La Responsabilità Sociale d’Impresa consiste anche nel dare maggiore attenzione ai dipendenti, mettendo le persone al centro e, dove possibile, fermare le fabbriche o agevolare il lavoro in modalità smart working

Infatti, chiudere le fabbriche non era previsto dal DPCM dell’11 marzo ma molti imprenditori e grandi aziende avevano già deciso di sospendere, momentaneamente, le loro attività produttive per tutelare la salute del proprio personale.

Le imprese del settore della produzione che non avevano deciso di chiudere o, ancora oggi, non possono fermare la propria attività si stanno adoperando per permettere ai dipendenti di lavorare in sicurezza, adottando misure straordinarie, effettuando la sanificazione degli impianti, optando per la turnazione del personale e acquistando, dove reperibili, ingenti quantità di materiale per la protezione individuale.

Invece, per tutte le aziende del settore dei servizi lo smart working è stata la soluzione per continuare a lavorare garantendo la salute del personale. La maggior parte delle imprese ha fatto ingenti sacrifici per permettere a tutti i dipendenti di lavorare da casa, cambiando rapidamente le abitudini e le dinamiche lavorative e investendo per fornire l’attrezzatura necessaria. Infatti, solo poche realtà erano effettivamente pronte per permettersi di attuare immediatamente e completamente lo smart working, che per molti era ancora in fase di sperimentazione. Si è compreso come lavorare in smart working non volesse soltanto dire investire in tecnologie ma implicasse un cambiamento di mentalità e della propria cultura.

Donazioni, trasformazioni aziendali e maggiore attenzione alla salute e alla sicurezza delle persone: le imprese italiane sembrano andare sempre più verso una riscoperta ed una maggiore comprensione della loro responsabilità e del loro ruolo nella società.